Cos’è lo storytelling?

Lo storytelling nasce come tecnica negli Stati Uniti di metà anni ’90. Prima come strumento pedagogico, poi nel management e alla fine in comunicazione. Il tutto perché ci si è accorti di una cosa semplicissima: l’uomo ha sempre raccontato storie. Noi uomini, maschi più precisamente, raccontiamo un sacco di storie, per lo più false fin da quando siamo piccoli, dando così alle donne la possibilità di raccontare storie su come le nostre storie le facciano impazzire. Battute a parte, negli ultimi 20 anni ci si è accorti come il meccanismo del racconto sia il collante perfetto tra emissario e ricevente (santo McLuhan) nell’istruzione, nella formazione, nella comunicazione, perché si è deciso di ripartire dal fattore “di pancia” più che dal marketing (che comunque dopo ci ha messo la sua pezzetta). Gli esseri umani infatti sono cablati per il racconto. Se ci pensiamo, noi tutti diamo un senso al mondo che ci circonda attraverso narrazioni: formano una parte fondamentale della nostra cultura, sistemi di credenze, le organizzazioni e le identità personali.
Esse ci permettono di raccontare, prevedere e mostrare il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo. Questo ora si è trasposto ai brand e ai prodotti. Perchè? Perché nel frattempo noi siamo diventati un brand. Anche se il marketing ci vuole brand ambassador, noi siamo un vero e proprio brand, e dobbiamo tutto questo alla nascita dei Social.

Digital e storytelling: nemici o alleati?

Di sicuro alleati. Ma non amici di sicuro. Mi spiego meglio. La proliferazione di strumenti digitali e poi il social hanno creato un humus per cui l’imperativo è condividere. A volte mi fa strano pensare che 10 anni fa non sapevo cosa mangiasseroi miei amici, ora sono tranquillo, si nutrono, e soprattutto nutrono speranze di velleità culinarie. Viviamo in una realtà iperconnessa, per cui il quarto d’ora di celebrità alla Warhol è un infinito quarto di secolo sui social. Noi nativi digitali abbiamo cominciato a raccontarci a inizio millennio coi blog, a metà anni duemila con le foto, poi coi social, ora coi video. Insomma, lo spazio della comunicazione non è più in mano a pochi.

Per questo si deve creare l’alleanza, anzi ne è una naturale conseguenza: gli spazi e strumenti del digital consentono di raccontare qualsiasi storia nel modo più corretto. Non esiste il metodo giusto nello storytelling, tutto parte dall’identità e dalla storia del brand. Molte volte non c’è bisogno di essere social, molte volte è sbagliato essere social se ci si affida ad agenzie che vendono la comunicazione un tanto al kilo. Non abbiamo tutti gli stessi bisogni comunicativi e il target, sebbene io guardi da sempre il marketing con distaccato sospetto, non è un’opinione. Questo è il misunderstanding che pseudo esperti che chiamano i social “il web 2.0” hanno creato.

Un buon storytelling funziona solo se abbina ad una strategia strutturata (ma resiliente) una forte, fortissima componente offline, anzi, analogica, come piace dire a me. Perché, ritorna tutto al punto di partenza: stiamo raccontando storie, storie fatte di persone, luoghi, sfide, avvenimenti, sentimenti. E il processo di identificazione, parte trainante del raccontar storie, funziona meglio se quelle storie si possono guardare, osservare, toccare. Quello crea un motivo di condivisione. Il tempo delle adorazioni e delle celebrity è finito, non siamo più un mercato emergente di bisogni comunicativi.

I tuoi consigli sull’integrazione dello storytelling nelle strategie di Brand

Quindi cosa si crea? Un flusso continuo di update e informazioni (non richieste di solito) che ruotano attorno alla persona. Non c’è nulla di male, se non il fatto che fino a pochi anni fa il brand si sentisse al di sopra della persona. Una cosa al giorno d’oggi impossibile: le marche non possono controllare il flusso delle informazioni, dei tweet, dei commenti, delle foto, degli hashtag. Quindi il brand è diventato ciò che il cliente (non utente, non consumatore: cliente) sceglie che sia, raccontandolo agli altri. E sulla base di questo che bisogna operare: tutto è relazione. Nei corsi che noi di Bee Free teniamo ai master del Sole 24 Ore facciamo una continua operazione di lavaggio del cervello agli studenti: siamo nell’epoca della reputation economy. Una ricerca di settore, svolta negli stati uniti l’anno scorso da Searchmetrics, ci dice che il 92% dei consumer sostiene che una raccomandazione da un amico, un familiare o qualcuno di cui si fidano, influenza in modo importante l’orientamento all’acquisto di un prodotto o un servizio. Prima si chiamava passaparola. L’era dei social media l’ha reso fondante e imprescindibile, se non totalizzante.

Da lì parte tutto, da lì non si scappa. Le ricerche di mercato sono importanti, ma non sono la soluzione per il brand. Bisogna imparare ad essere romantici. Sì, romantici, come dice la mia socia e cofounder Patrizia Grandicelli: “I brand romantici assomigliano ai concierge degli hotel di inizio secolo e sono, in sintesi, l’anti-algoritmo: Accessibili, personali, estremamente soggettivi. Ma perchè non combinare Big Data e Grandi idee? Scienza e sogni?Gli esperti di marketing di ultima generazione cercano l’alchimia per creare mistero e momenti di inesplicabile magia non tanto per muovere prodotti ma per dargli significato.” (il resto del post è qui: https://medium.com/bee-free-the-social-bee/la-variante-bellezza-9b7f0a17b1d0)

Riguardo ai consigli su come integrare lo storytelling ai brand. Pensate che sia una relazione. Sì, davvero una relazione a tutti gli effetti, una storia da scrivere, vivere, raccontare. Non c’è la ricetta giusta, bisogna elaborare (o far elaborare) la strategia giusta che possa declinare valori, mission, vision ai diversi media rispettando l’identità del brand, non avendo paura di raccontarsi e, soprattutto di osare. Osare (proprio come quando ci si innamora o si vuol fare innamorare qualcuno) è la chiave di lettura in questo momento in cui lo storytelling è ormai una tecnica di comunicazione consolidata e riconosciuta dal grande pubblico. E poi pensiamoci un attimo su. Ci innamoriamo di una bella copertina, di una bella faccia o della storia, del tutto il resto che troviamo in chi abbiamo scelto di avere davanti?

15 Febbraio 2016

Storytelling

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ANDREA BELLOMO

Andre nasce nel rampante NordEst italiano degli anni ’80. Cresce tra libri, televisione, foto, nonni, cani, non necessariamente nell’ordine appena scritto.
Nel frattempo, impara anche il tedesco, il francese (poco) e lo spagnolo, e apre un profilo su tutti i social network. Tra un viaggio e l’altro si è laureato in Comunicazione Aziendale, si è rilaureato in Design Della Comunicazione alla NABA con una tesi crossover di sociologia-fotografia-social network su narcisismo e autoritratto, quando ancora non esisteva la parola selfie.
Ha scritto di architettura, e dopo un breve ma intenso viaggio nel mondo della moda come editor per Antonioli, si è occupato di distance communication e training per Newton Management Innovation.
Dal 2011 è stato designato come inviato unico per L’Espresso a Sanremo, è stato poi scelto come blogger in cattedra alla Business School de Il Sole 24 Ore per diversi master e master executive che trattano di luxury, moda, design, arte e comunicazione, trattando argomenti come il web writing, la web reputation, la self promotion, lo storytelling.
Dal 2013 prende parte a BEE FREE, l’agenzia-collettivo social più bella del web come Direttore Creativo, creando progetti di comunicazione integrata su temi corporate, implementando tecniche innovative di storytelling offline e online.